Tito Manlio e il gallo insolente

a cura di Giuseppe Rudilosso


L’episodio narrato è il risultato dell’unione di due redazioni scritte da Claudio Quadrigario, vissuto al tempo di Lucio Cornelio Silla (prima metà del I sec. a.C.), e da Tito Livio, vissuto al tempo di Ottaviano (seconda metà del I sec. a.C.). I due autori descrivono una scena di duello avvenuta nel 391 a.C. durante uno scontro con i Galli, accampati a circa tre miglia da Roma.


L’esercito romano era guidato dal dictator Tito Quinzio, che pose il campo a sud del fiume Aniene.

Nel mezzo del combattimento, mentre le opposte schiere pugnavano con ogni ardore, si fece avanti un Gallo nudo, senz’altre armi che uno scudo e due spade, ornato di un torques e di braccialetti; egli tutti sovrastava per la forza, la corporatura, la gioventù e il valore e fece segno all’una e all’altra parte che cessassero. Il combattimento si arrestò e fattosi subito silenzio con quanta voce aveva in corpo gridò:

 

“Orsù, il guerriero più forte di Roma si faccia avanti a combattere, e l’esito del nostro duello dimostri quale delle due genti è più valente in guerra”.

 

A lungo durò il silenzio fra i campioni della gioventù romana, poiché da un lato si vergognavano di rifiutare la sfida dall’altro nessuno osava di fronte all’enormità e mostruosità dell’aspetto. Allora il Gallo scoppiò in una risata e mostrò la lingua ai Romani. Spiacque assai ad un certo Tito Manlio, di nobilissima stirpe, di vedere così grande insulto rivolto alla propria nazione e che nessuno di così numeroso esercito si presentasse. Manlio per tale ragione, lasciato il suo posto andò a presentarsi al dittatore dicendo:

 

“Senza tuo ordine, o comandante, io giammai oserei combattere fuori delle file, neppure se vedessi la vittoria certa; ma se tu me lo consenti , io voglio mostrare a quella belva, che con tanto orgoglio fa lo spavaldo davanti alle file nemiche, di essere discendente di quella famiglia che fece precipitare dalla rupe Tarpea le schiere dei Galli”.

 

Allora il dittatore disse:

 

“Sia onore alla tua virtù e alla tua pietà verso il padre e la patria, o Tito Manlio. Va, e con l’aiuto degli dèi dimostra che invincibile è il nome di Roma”.

 

I compagni aiutano Manlio ad armarsi ed imbracciato uno scudo da fanteria ed impugnata una spada spagnola, adatta al combattimento corpo a corpo, viene condotto di fronte al Gallo che stoltamente esultava e in segno di scherno mostrava la lingua. I due campioni rimangono soli in mezzo ai due eserciti, assai dissimile era il loro aspetto e mentre tanti cuori umani all’intorno erano sospesi fra la speranza e il timore lo scontro ebbe luogo.

Il Gallo, secondo il costume di quel popolo, protendeva lo scudo canticchiando e sovrastando il Romano dall’alto della sua mole, abbassò un fendente sull’armatura del nemico che si faceva sotto, con grande fracasso ma senza effetto. Manlio fidando più nel proprio coraggio che nella destrezza, urtò con il proprio scudo quello dell’avversario, compromettendone l’equilibrio e mentre il Gallo cercava di rimettersi in posizione, Manlio levò in alto la punta del suo gladio ed urtò ancora con lo scudo la parte inferiore dello scudo nemico, e insinuatosi con tutta la persona fra il corpo e le armi del Gallo, al riparo dal pericolo di ferite, con ripetuti colpi gli trapassò il ventre e l’inguine e poi colpì l’avversario all’omero destro facendo crollare al suolo il nemico che giacque disteso coprendo largo tratto di terreno.

Quando fu a terra gli tolse il torques e se lo infilò al collo.

I romani esultanti andarono incontro al loro campione fra canti scherzosi e improvvisati in suo onore fra cui ricorse, com’è uso dei soldati, il soprannome di Torquato, il quale rimase poi famoso presso i posteri e titolo d’onore per la sua famiglia.

 


Bibliografia:

Claudio Quadrigario - I libro degli Annali = Fr. 106 Peter

Tito Livio - Ab Urbe Condita (VII, 10)